Nuovi elementi sul controverso episodio coloniale alla «Grotta del ribelle» a Zeret in Etiopia, con protagonista l'eroe alpino Gennaro Sora, vengono ora dall'insolito punto di vista della speleologia.
Giampaolo Rivolta, ingegnere chimico e speleologo, dal gennaio 2009, in più spedizioni ha esplorato a fondo, studiato e filmato la grotta, confrontando il materiale scientifico raccolto con i racconti dei superstiti della battaglia del 1939 e traendone conclusioni in parte diverse da quelle che lo storico Matteo Dominioni dell'università di Torino, ha raccolte nel libro Lo sfascio dell'impero.
Alla serata di rievocazione storica, organizzata a Castelli Calepio da Paolo Bendinelli del Lions Club Due Laghi, hanno partecipato anche la pronipote del «capitano», Isabella Natali Sora, il sindaco di Foresto Sparso Gennaro Bellini, l'assessore del Comune di Bergamo Leonio Callioni. Nel 1939 il ten. col. Gennaro Sora, al comando di una colonna di Ascari, viene inviato per un'operazione di polizia coloniale nella zona di Zeret, dove i partigiani e la popolazione si sono rifugiati in una grotta-roccaforte. Al termine di una sanguinosa battaglia che dura più giorni e nella quale gli italiani fanno uso dell'iprite, vietata dalle convenzioni di Ginevra, i partigiani si arrendono e circa 800 etiopi vengono fucilati. I punti dove la ricostruzione dello storico e dello speleologo divergono riguardano i civili uccisi e gli effetti dell'iprite. Secondo Rivolta, non solo le donne e i bambini, ma anche i ragazzi furono risparmiati, mentre furono giustiziati gli uomini in armi. Inoltre l'iprite non provocò la morte, nei giorni successivi alla resa, dei civili risparmiati. Quindi, a Zeret, Sora non si sarebbe reso responsabile di un massacro ingiustificato, ma si sarebbe regolato secondo le procedure militari utilizzate in quel periodo in Etiopia, mantenendosi in contatto con i superiori.
L'imboccatura della grotta di Zeret è bassa e lunga 83 metri, a metà di una parete a strapiombo che chiude un vallone, meno ripido sul lato verso il villaggio (dal quale scende un sentiero che raggiunge l'imboccatura), mentre l'altro versante è più ripido, ma non del tutto inaccessibile. All'ingresso, un muretto a secco permette di sparare restando al sicuro. La grotta è molto vasta e contiene a un livello più basso un laghetto di almeno 100 metri cubi di acqua che si raccoglie per stillicidio. Abbastanza per dissetare mille persone per 100 giorni. «Conclusa l'esplorazione – racconta Rivolta – leggo il libro di Dominioni e alcune affermazioni mi sembrano difformi da quello che ho visto e sentito. Per esempio, ho raccolto il racconto di due testimoni diretti che avevano 83 e 89 anni e che, ragazzi all'epoca dei fatti, furono lasciati andare. La presa della grotta fu preceduta da giorni di battaglia, quindi i feriti c'erano, ma c'erano anche le armi. L'iprite, poi, è un liquido che viene nebulizzato tramite esplosione. Siccome era impossibile lanciarlo da lontano, perché sarebbe ricaduto per la maggior parte nello strapiombo, si cercò di buttarlo dentro in bidoncini, calandosi dalla cengia sopra l'imboccatura».
Ma usata così, l'iprite uccide solo chi è vicino, tanto che il capo del gruppo nella notte scappa, probabilmente arrampicandosi per il versante più ripido del vallone, dato che gli italiani, per la natura del terreno, sono attestati sul declivio di fronte. L'iprite invece infiltra il terreno e inquina il lago, provocando due giorni dopo la resa. «Non si può dire che chi non fu fucilato – sostiene Rivolta – morì comunque poco dopo per le conseguenze dell'iprite: una donna mi ha raccontato che il padre era riuscito a sottrarsi alla fucilazione saltando nel burrone insieme a un prigioniero, al quale era legato per un braccio, ed era ancora vivo pochi anni fa». Dall'esperienza a Zeret Giampaolo Rivolta ha tratto un libro che spera ora di pubblicare, grazie all'impegno assicurato dal Comune e dagli alpini di Foresto Sparso, paese natale di Gennaro Sora.
S. P. - L'Eco di Bergamo 13/03/2011
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