Il colloquio, Francesco D'Aniello Ufficiale degli alpini «Afghanistan l'infanzia negata» Stampa

Cita «Il cacciatore di aquiloni» – il toccante romanzo di Khaled Hosseini sull'infanzia negata dei bambini afgani – il giovane tenente Francesco D'Aniello, da quattro mesi in Afghanistan come vice comandante della 47esima Compagnia del 5° Reggimento alpini di Vipiteno. «"Qualcuno dice che in questo Paese ci sono tanti bambini, ma manca l'infanzia", scrive Hosseini. Una considerazione cruda ma vera. Qui le condizioni di vita sono veramente difficili, talvolta inimmaginabili per noi occidentali. Tuttavia sono proprio i bambini, la loro salvaguardia attraverso condizioni di sicurezza reale, il loro sviluppo attraverso una libera educazione, le basi per dare un futuro migliore all'Afghanistan».

 

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Nella sua tenda alla base militare «La Marmora», 120 chilometri a Sud di Herat, il tenente – 28 anni, veneto, alla prima esperienza all'estero – ha appeso le lettere che gli allievi delle elementari «La Traccia» di Calcinate gli hanno scritto in questi mesi. «Mi fanno sentire più vicino a casa, e mi hanno fatto passare un Natale certamente più sereno». Si erano conosciuti la primavera scorsa, quando il tenente – già alla guida delle penne nere, nel 2009 a Bergamo, nell'ambito dell'operazione "Strade sicure" – era stato invitato in classe per «preparare» i bambini all'adunata nazionale degli alpini. I giovanissimi studenti rimasero colpiti dalle parole del militare e avviarono con lui un rapporto epistolare che la lontananza non ha interrotto, come dimostrano disegni e pensieri appesi nella tenda di Shindand.
«In qualità di vice comandante di compagnia – spiega D'Aniello – mi occupo di attività organizzative, logistiche e operative in senso stretto». Il capitano Filippo Tremolada – il quale ci ha consentito di rintracciare D'Aniello – ci aveva avvertito: «Ci vorrà del tempo prima che possa rispondervi, ha compiti delicati che lo impegnano molto». Gli oltre 500 uomini di stanza alla base «La Marmora» pattugliano il territorio, scortano convogli e organizzano cliniche mobili che portano nei villaggi assistenza medica e veterinaria. «Il nostro personale sanitario ha curato più di 1.600 animali e 2.500 persone grazie anche ai farmaci donati dall'Ana di Bergamo». Gli interventi più rischiosi sono quelli «in supporto delle forze di sicurezza afgane per limitare le azioni degli insurgents», letteralmente «insorti», termine che indica tutti coloro che osteggiano il processo di pacificazione e ricostruzione dell'Afghanistan: non solo i Talebani ma soprattutto i capi banda e i signori della guerra e dell'oppio. D'Aniello, che tornerà a casa per Pasqua («Trascorrerò un periodo di vacanza con la mia famiglia in Veneto. Dopo diversi mesi passati in Afghanistan non c'è bisogno di fare grandi progetti. È sufficiente ritornare alle piccole cose di ogni giorno: una passeggiata in centro, una serata con gli amici»), fa un primo bilancio dell'esperienza vissuta. «È indubbio che un'esperienza del genere faccia crescere dal punto di vista umano e professionale. Qui mettiamo in pratica ciò per cui ci siamo addestrati in Italia, un continuo lavoro di affinamento delle nostre modalità operative. E dal punto di vista umano, la crescita è ancora maggiore. Nei villaggi si entra in contatto con una popolazione che è lontana da noi non solo dal punto di vista geografico, ma anche culturale; un popolo che vive in guerra da oltre 30 anni e per il quale lavoriamo duramente con l'obiettivo di ridargli una speranza. Operare in queste condizioni, a strettissimo contatto con i propri soldati, accresce lo spirito di corpo». Conforta sapere che l'atteggiamento della popolazione afgana nei confronti dei militari italiani è positivo. «La gente ci accoglie bene nei villaggi. In diversi casi è stata proprio la popolazione che ci ha avvisato di un pericolo, evitando il peggio. Ma non dobbiamo dimenticare che se la maggioranza è favorevole a noi e al governo afghano, nella popolazione si nasconde una minoranza che non ci vuole, che ci attacca nelle maniere più subdole e a volte, come sapete, riesce ad infliggerci delle perdite».
Sono 36 le vittime italiane dall'inizio della missione Isaf in Afghanistan, nel 2004. «Il sacrifico dei nostri Caduti ci spinge a fare di più e meglio. Il nostro operato non può fermarsi: sarebbe la vittoria di chi ostacola questo cammino verso il futuro che l'Afghanistan sta compiendo. Fermarci sarebbe il modo peggiore per onorare i nostri morti». Il pensiero torna ai bambini. «Ai bambini di Calcinate, ai quali mando un affettuoso saluto, vorrei dire di essere contenti di poter giocare a calcio su un prato, di poter andare a scuola e di avere una famiglia a casa che li aspetta e vuole loro bene. Qui tutte queste cose spesso sono lussi per pochi». Quale immagine di questa esperienza le resterà negli occhi? «Le immagini di questa terra, con le sue tante necessità e contraddizioni, sono troppe per indicarne una, e i ricordi difficilmente svaniranno quando sarò tornato alla mia vita in Italia. Gli sguardi di questa gente fiera sono di quelli che non dimentichi».

 

Camilla Bianchi - L'Eco di Bergamo 28/02/2011